CAPIRE MOLTO PIÙ DI UNA FOTOGRAFIA

di Daniele Prati

 

Il libro è Capire una fotografia, di John Berger. Ho riempito i margini di rimandi, di faccine sorridenti, di parentesi graffe puntanti al disegno di una lampadina illuminata, di frecce a nomi di personaggi di un romanzo che sto scrivendo e di sottolineature. Per fare un po’ di ordine ho pensato di scrivere questo. Non so se si tratta di una recensione. Qualunque cosa sia, eccola qui.

Sottolineatura a pag. 35: E arriviamo così al paradosso scarsamente compreso della fotografia. La fotografia è la registrazione automatica di un dato evento tramite la mediazione della luce: essa tuttavia usa quel dato evento per spiegare perché lo si registra. La fotografia è il processo attraverso cui l’osservazione diventa consapevole di sé. Per me, questa cosa, risponde alla domanda sul perché una storia imponga di farsi raccontare. Lo fa attraverso il narratore, facendolo diventare tale.

I paragrafi successivi conducono alla frase che è anche citata in copertina. In pratica, attraverso un inciso in cui si ricorda a tutti che in una foto sono egualmente importanti le cose che vengono mostrate e quelle che non vengono mostrate, John Berger conclude che ogni fotografia è un mezzo per verificare, confermare e costruire una visione totale della realtà. Doppia, tripla sottolineatura e pioggia di frecce a matita.

Partendo da una foto di August Sander, Giovani contadini, del 1914, in un paio di evoluzioni sociologiche, mi viene spiegato come si soccombe all’egemonia culturale (mentre leggevo, visualizzavo una pletora di hipster che conquistava le nostre città). Ah, la giacca rappresenta il classico esempio di egemonia di classe e io ho solo felpe e magliette, orgoglio di classe.

Il saggio su Paul Strand è bello come una poesia ed istruttivo come un manuale. Parte da questa considerazione, Paul Strand trasforma i suoi soggetti in narratori, raffronta il metodo di Strand con quello di Henri Cartier-Bresson verificandone la diametrale opposizione, e poi ti appoggia lì questa frase: si ha la strana impressione che il tempo di esposizione sia la vita intera. A fianco ho scritto WINNER! a matita.

Recentemente un mio amico attore mi ha chiesto il permesso di utilizzare una mia foto in cui lo ritraevo sul palco di uno spettacolo. Gli ho risposto che non doveva neanche chiederlo visto che la foto era molto più sua che mia, dato che vi era lui, dentro. E questa è la frase che ho trovato a pag. 73: A differenza di qualsiasi altra immagine visiva, una foto non è una riproduzione, un’imitazione o un’interpretazione del soggetto, ma una sua traccia. Nessun dipinto o disegno, per quanto naturalistico, appartiene al soggetto quanto una fotografia.

Perla buttata lì che mi ha folgorato a pag. 88Quando riteniamo che una fotografia sia significativa, è perché le prestiamo un passato e un futuro.

E continua, qualche pagina dopo, un fotografo, attraverso la scelta dell’istante fotografato, può cercare di convincere lo spettatore a prestare a quell’istante un passato e un futuro.

A questo punto, partendo dalla nozione di apparenze, J.B. si lancia, e noi con lui, in una corsa sulle montagne russe dei suoi pensieri, la cui intelligenza porta a vette vertiginose, e mette tutto in relazione fino alla creazione di un sistema che spiega il concetto di fotografia dal punto di vista semiotico utilizzando categorie come idee, eventi, corrispondenza, ricezione e coerenza. Una cosa che alla fine ti lascia eccitato e anche un po’ ebbro di felicità. Dovete leggerla.

Già fino a qui lo spettacolo varrebbe il biglietto. Guardi il numero di pagina e sei solo a metà. E la metà che segue è altrettanto tersa e splendente. Quest’articolo lo chiudo qui. Non voglio fare spoiler e, soprattutto, voglio tenermi qualcosa per me.

Daniele Prati per Romagna Street Photography